18 Febbraio

Sezione: non-accadde/

Sardonicus dixit “Spesso amiamo dilungarci sui nostri difetti, ma il crederci lo consideriamo il peggior difetto di chi ci ascolta.”


18 febbraio

3102 aC. Secondo il matematico indiano Aryabhata (VI sec dC) a mezzanotte tra il 17 e il 18 febbraio morì Krishna, dando inizio al Kali Yuga, l’era del ferro attuale, che durerà un massimo di 432 000 anni. Ciò permise ad Aryabhata di porre la data della guerra descritta nel poema epico indiano “Mahabharata” al 3137 aC. Pur con tutto il rispetto per Aryabhata, la discussione sulla datazione del nucleo centrale del Mahabharata è ancor oggi vivacissima. Il lunghissimo poema è attribuito al saggio Vyasa, che non poté scriverlo senza l’aiuto di un dio, Ganesha dalla testa d’elefante. Nulla è piccolo in questo gigante della letteratura, diviso in 18 canti - parvan - più un’aggiunta (Harivamsa). Ogni parva, da solo, sarebbe un poema, non necessariamente breve. Se non si ha tempo di leggere l’intero poema, consiglio senza dubbio il Bhagavad-Gita (700 versi nel sesto parvan) e il diciassettesimo parvan, in cui i cinque Pandava, più la moglie Draupadi, più un cane che si unisce a loro per conto suo, salgono sulle montagne per ascendere il monte Meru e ricongiungersi al mondo spirituale (svarga). Uno per uno i vari personaggi cadono per via fino a che il protagonista (si fa per dire, in un poema di tali dimensioni) Yuddhisthira ed il cane restano soli. Al cane, sfortunatamente, viene vietato l’ingresso in Cielo, ma…
(“Mahabharata”, forse completato nel IV-V sec dC, circa 100.000 “versi”. Una volta che lo si è letto penso che si possa incominciare a dire di capire qualcosa del mondo indù).
Del numero di versi è difficile fare un conto preciso. Non si trovano due conteggi eguali, anzitutto perché esistono diverse edizioni del poema, che si è formato per implacabile accrezione su un nucleo iniziale di forse 24000 versi. In secondo luogo, i versi del Mahabharata, gli shloka, sono dei “super-versi” di 32 sillabe, che sono sovente trasformati in distici o addirittura spezzati in quattro ottonari.
Per gli amanti dei record, circa dieci volte più lunga del Mahabharata sarebbe la semi-orale epopea tibetana dell’eroe Gezar, re di gLing. L’opera completa evidentemente non è destinata a spiriti pavidi, con venti milioni di parole, un milione di versi, e presumibilmente 120 volumi, se mai si volesse stamparla. Gli spiriti pavidi si possono accontentare della prima traduzione tedesca, dal mongolo, dovuta a I.J. Schmidt (e reperibile su Internet). Terminato questo volumetto, si chiederanno probabilmente che cos’altro possa ancora capitare a Gezar nei restanti 119 volumi.
(“Die Thaten Bogda Gesser Chan’s”, 1839, sette capitoli in prosa, 335 pagine).
Se non sbaglio, non è necessario pronunciare la g iniziale di gLing. Lo Jäschke, missionario metodista che pubblicò una grammatica tibetana nel 1883, scrisse che nel Tibet Centrale, dove si parlava la lingua elegante, pronunciare in ogni caso questa ed altre quattro lettere iniziali era considerato volgare.


1720, domenica. È il giorno “8 Rebiab-I del 1720”, data dell’ultimo gruppo di “lettere persiane” di (Charles-Louis de Secondat, baron de) Montesquieu. Con essa si conclude, in modo inatteso, un carteggio filosofico-satirico. Forse non le prime lettere, ma le ultime, costituiscono realmente uno dei primi romanzi epistolari del mondo (si veda però 11 settembre).
(“Lettres Persanes”, prima edizione anonima del 1721, 161 lettere, 597 Kbytes).
Una curiosità è che l’edizione del 1721 fu pubblicata anonima presso l’editore Jacques Desbordes, ad Amsterdam, che si nascose a sua volta sotto l’indirizzo “A Colonia, presso Pierre Marteau, libraio ed editore presso il Collegio dei Gesuiti”. Esiste una storia dell’editore fantasma Pierre du Marteau, pubblicata nel 1888 da Léonce Janmart de Brouillant, il quale però non nota e non spiega la strana collocazione presso il Collegio dei Gesuiti di Pierre Marteau, che compare in questo libro, per quanto ne so, unica nei libri da lui (non) pubblicati.


1820, venerdì. Papà Goriot soffre un ictus, di cui morirà due giorni dopo. Il funerale sarà a sera del 21. È la conclusione del romanzo “Père Goriot”, di Honoré de Balzac, storia di un modesto Re Lear che ha però solo due figlie. Purtroppo gli manca proprio Cordelia. Al funerale, con pochi altri che ci vanno di ufficio, partecipano solo Christophe, il fedele garzone savoiardo della pensione Vauquer, ed Eugène Rastignac che alla fine, guardando il panorama di Parigi da un’altura vicino al cimitero di Père Lachaise, lancia la sua sfida alla città, dicendo: “À nous deux, maintenant – E adesso, a noi due”. La lotta fra i due verrà raccontata nella lunga serie della “Commedia umana”, in cui ricompariranno una trentina dei personaggi che appaiono in “Papà Goriot”, romanzo che gioca in questo contesto un ruolo fondamentale.
(“Père Goriot”, 1834, 587 Kbytes).
E poi, abbiamo anche il grande modello. Cupo, ma una delle maggiori opere di William Shakespeare, su cui, come il solito, meno si dice e meglio è.
(“King Lear”, recitata almeno a partire dal 1606 e pubblicata in due versioni: 1608 e 1623, 5 atti, 181 Kbytes).